Di loro non avrei voluto più parlare, lo dissi già allora quando superarono il segno, ma quel limite valicato che ora non ha più confini ha bisogno di commento.
A Marassi è andata in scena, oltre a una bella partita, l’opera finale di un’intera stagione:
c’era una volta la Juventus. Sottolineare il non gioco appare ormai come giocare a Risiko contro Bin Laden: una partita persa. Evidenziare però, da chi si è stati battuti, aumenta la rabbia.
Ci si è arrabbiati, giustamente, per tutto quello che ci è stato tolto; dagli scudetti ai campioni ormai affermati.
Non ci siamo inizialmente resi conto che era il minimo. Quella Juventus, quella dei 91 punti, stava cambiando pelle, e probabilmente in quell’estate del 2006, dopo aver festeggiato il mondiale, avremmo aperto fiumi di discussioni sul perché si vendeva Tizio e si puntava su Caio. Quella Juventus, quella del futuro, quella che avrebbe dovuto sostituire dei “monumenti” della storia bianconera è ancora viva, c’è. E sabato sera si è materializzata in campo: prima con la presenza di un tecnico cresciuto in un certo ambiente, e poi con un gol a pochi minuti dalla fine, il gol di Raffaele Palladino.
Ogni cicatrice che deriva da una ferita ha un suo passato, che ritorna.
Un passato che ha saputo programmare il futuro. Alcuni esempi:
Antonio Conte sta trascinando, da allenatore, il Bari in serie A, con un gioco, a detta di molti, tra i più belli della serie cadetta; il Genoa di Gian Piero
Gasperini sta tentando la scalata alla vetta più alta, calcisticamente parlando, d’Europa, cercando l’accesso alla Champion League; in quel Genoa si sta valorizzando il talento di
Palladino, cresciuto guarda caso nella “primavera” bianconera di Gasperini.
Abbiamo scritto a più riprese della totale mancanza di programmazione della dirigenza, incompetente e spendacciona, abbiamo sottolineato di come servirebbe un pizzico d’orrore per se stessi. Ma quello che oggi fa male è vedere un ragazzo di soli 25 anni segnare il gol della vittoria che probabilmente proietterà il Genoa di Gasperini in Champions League.
Non è l’episodio in sé, facente parte del gioco del calcio, che rattrista, ma le modalità.
Destinato per talento, nella stagione di Deschamps il suo score si assestò a 25 presenze e 8 reti, riuscendo a dare un contributo importante alla promozione in Serie A, tornato a Torino, e pronto alla consacrazione, viene relegato come quarto attaccante, affievolendone speranze e sogni.
Il ritorno a Genova, dopo un brutto infortunio, ne segna la rinascita, con l’apoteosi di sabato sera.
Questa è la cronaca, questi sono i fatti. Spargere poi, come sale sulle ferite, i quasi dieci milioni di euro spesi per Poulsen, quando una ragazzo di appena 26 anni (considerato a ragione uno dei più forti e talentuosi centrocampisti moderni) e acquistato a parametro zero nell'estate del 2008, schianta la Juventus e Poulsen con una doppietta, beh ci sarebbe bisogno di un manicomio.
Quando un campione cambia maglia perché la dirigenza sta provando a rendere ancora più competitiva la squadra fa male al cuore, ma quando questo viene scartato per acquistare bidoni vien foglia di far del male.
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