Le occasioni in cui mi capita di guardare una partita in tv sono rare. Tra queste, ci sono i match di Champions League che la Rai trasmette il mercoledì. Stavolta in programma c’era l’ennesima semifinale tutta inglese: a sfidarsi erano Manchester e Arsenal.
La sfida è stata anticipata martedì dalla consueta conferenza stampa, in cui Sir Alex Ferguson ci ha regalato qualche spunto interessante. A parte le dichiarazioni di stima per Messi (“è il massimo”), Kakà (“impressionante”), Zidane (“brillante”) e Maldini (“è stato il mio preferito”), sono significativi i nomi dei colleghi che il pluridecorato allenatore del Manchester ha indicato come i migliori da lui incontrati in carriera: Lippi, Ancelotti e Hitzfield. Ferguson ha poi voluto precisare che non poteva nominare Capello, dal momento che stranamente non ha mai giocato contro una sua squadra. L’allenatore dei Red Devils non ha citato Wenger, Benitez, Hiddink, Mourinho, allenatori venerati dai mass-media di tutto il mondo.
Ha fatto solo quattro nomi: tra questi quattro, tre firmarono tutte le stagioni della vecchia gestione bianconera, spazzata via da Farsopoli. In particolare, è evidente che l’allenatore più ammirato da Ferguson sia
Lippi, di cui ha ricordato anche un aneddoto :
“Ricordo una volta a Torino, contro la Juve. C’è Lippi in panchina, vestito con un cappotto in pelle, a fumare con calma un sigaro, mentre io ero in tuta a sbracciarmi e ad affogare sotto la pioggia… è bellissimo giocare contro i grandi in tutti gli stadi più importanti”. A noi juventini questa vicenda sembra preistoria. E invece era ieri l’altro. La sensazione è quella che, giornalisti a parte, gli addetti ai lavori più seri siano consci della forza di quella Juve, che per 12 anni è stata un orologio perfetto, in cui tutti – dal direttore generale ai magazzinieri – lavoravano in maniera ultra-professionale. E forse, ma questa è solo una congettura, ad un uomo come Ferguson, innamorato delle sfide di altissimo profilo, l’assenza della vera Juve dalla competizione europea ha tolto un’occasione in più per provare emozioni. Con questo non voglio dire che senza la Juve per i Red Devils le cose siano diventate come d’incanto eccessivamente facili (basta pensare alla rocambolesca finale dell’anno scorso), ma chi non si accontenta di vincere un titolo tanto per potere dire di averlo in bacheca (ogni riferimento al proprietario della seconda squadra di Milano non è casuale) è sempre contento di avere una squadra di alto livello in più con cui confrontarsi.
Mercoledì è il giorno dell’incontro. La sigla di apertura è sempre la stessa: qualche anno fa, mi procurava un’esplosione di adrenalina difficile da descrivere. Ora è motivo di nostalgia. Ad entrare in campo non ci sono più le maglie bianconere di Vialli, Zidane o Del Piero. Siamo costretti a vedere i nuovi padroni del calcio europeo: Adebayor, Fabregas, Rooney, Cristiano Ronaldo. Bastano pochi minuti per intuire qual è la differenza tra il calcio europeo – l’inglese in particolare – e quello che si gioca nel nostro torneo rionale:
il ritmo. Queste squadre vanno a mille!
Ma i cronisti italiani sembrano non accorgersene. Nella prima frazione il Manchester è un rullo compressore. Il commento è più o meno questo: “L’Arsenal non è sceso in campo. A differenza dell’Inter, che con il Manchester se la giocò, i Gunners sono troppo rinunciatari”. Ma questi commentatori hanno un vago ricordo della partita di San Siro? Ferguson era talmente preoccupato di incontrare la capolista italiana da non schierare neppure Rooney! E c’è un’altra cosa che i giornalisti italiani sembrano dimenticarsi: nelle ultime tre stagioni, vale a dire quelle dopo Farsopoli, sono costantemente arrivate in semifinale di Champions tre squadre inglesi su quattro. Quante italiane abbiamo visto disputare una semifinale negli stessi anni? Nel 2006/07 il Milan (i cui dirigenti, al contrario degli juventini, preferirono giocare e vincere la Coppa, piuttosto che scendere in serie B), nel 2007/08 nessuna, nel 2008/09 nessuna. E allora cosa abbiamo da insegnare agli inglesi? Niente.
E’ ora che i nostri giornalisti facciano i conti con la realtà: per fare vincere qualcosa a chi tanto aveva speso senza portare a casa nulla,
il calcio italiano ha perso non solo la propria credibilità, ma anche il proprio valore tecnico. E allora, invece che criticare le diagonali e il pressing sui portatori delle squadre d’oltremanica, i nostri commentatori farebbero bene a tenere presente un vecchio proverbio:
“chi è causa del suo male, pianga se stesso”. Commenta l'articolo sul nostro forum!