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Farsopoli di G. FIORITO del 19/03/2014 08:05:51
Calciopoli_Ma che motivo c’è?

 

Pazientemente cercheremo di leggerle, le motivazioni della sentenza di secondo grado del processo di calciopoli. A caldo commentiamo gli stralci pubblicati da Tuttosport e dalla Gazzetta dello Sport. Abbiamo dovuto arrenderci nel corso di questi anni di indagini e processi all’idea che la verità processuale non si identifichi con la verità nuda e cruda. Però è anche vero che non se ne può allontanare fingendo di non vedere e di non sentire pur avendo visto e sentito. Specialmente se alcune verità inconfutabili, per essere state ascoltate dalla viva voce dei protagonisti, sono state fatte sparire dal quadro generale un po’ ad arte e un po’ perché prescritte.

Questo processo è nato monco. L’origine della condanna patita frettolosamente in sede sportiva dalla Juventus fu imposta mentre Saverio Borrelli continuava a ripetere che molto c’era ancora da sapere e le indagini andavano proseguite, allargandole a 360°. Ciò non è stato fatto dagli inquirenti, ma dai legali degli imputati, soprattutto di Luciano Moggi, che attraverso l’opera minuziosa del consulente informatico Penta hanno scovato tutte quelle intercettazioni che piaccia o non piaccia c’erano. Esse annullavano quella che ancora compare tra le accuse principali rivolte all’ex ds della Juventus, che come si legge nelle motivazioni della sentenza "esercitava un ruolo preminente sugli altri sodali" coinvolti in Calciopoli in virtù anche "di una spregiudicatezza non comune". Questa spregiudicatezza lo portava a un ruolo “apicale”, per la "peculiare capacità di Moggi di avere una molteplicità di rapporti a vario livello con i designatori arbitrali fuori dalle sedi istituzionali, ai quali riusciva a imporre proprie decisioni, proprie valutazioni su persone e situazioni”. Se il riferimento è alla capacità di Moggi di condizionare gli umori attraverso le trasmissioni televisive il tentativo è un buco nell’acqua, perché il processo ha ridicolizzato questa accusa. Se è diretto ai sodali della presunta organizzazione, va fatta qualche osservazione. Anzitutto, anche tralasciando tutte le prove di colloqui telefonici e riunioni tra i designatori e tutti i dirigenti di calcio, devono spiegarci perché non fa testo l’intercettazione di Carraro che in qualità di presidente della FIGC si preoccupava di impartire a Bergamo istruzioni affinché Rodomonti favorisse l’Inter e non la Juventus. Lo stesso Carraro che nella doppia veste di professionista del mondo delle banche e di dirigente della Federazione molto si prodigò per salvare la Roma e la Lazio dallo sfascio e dal fallimento.

Le motivazioni ci propinano, a guisa di un prologo che torna a ricucirle con la sentenza sportiva, un’ennesima ramanzina etica sul “principio di mantenere una equidistanza necessaria ed ineludibile tra i contendenti che non deve mai venire meno”. A meno che non venga prescritto, come è accaduto all’Inter, che intanto non si faceva scrupolo di fornire passaporti falsi a un suo giocatore e spiare la concorrenza servendosi di un arbitro in attività e dei mezzi Telecom, di cui era presidente un componente del suo cda. Oppure delegato, come si usava in casa Milan, dove si adoperava un profilattico come accorgimento per non compromettere il vicepresidente vicario. Ma veniamo al propulsore escogitato per mantenere in piedi le accuse che alcuni avvenimenti hanno svuotato di significato. Il processo GEA ha smontato il piedistallo su cui si reggevano, e cioè che la molteplicità dei rapporti di Moggi potesse trarre forza dalla possibilità di condizionare il mondo del calcio con un’associazione a delinquere. Un anello più su s’è liquefatto un altro tassello dell’associazione, essenziale e funzionale alla sua esistenza: il girone degli arbitri. Ciò che in queste motivazioni assume forza è che "Emerge con chiarezza un ruolo affatto secondario, ma anzi di rilievo nel sodalizio, ricoperto dagli imputati Pairetto, Bergamo e Mazzini”, aggravato dal fine non solo di condizionare le partite, ma anche di acquisire un potere di controllo dei vertici federali. I designatori e il vice presidente della FIGC tornano ad assumere un ruolo di primo piano, come le griglie, attraverso le quali si attuerebbe la pretesa di indirizzare a piacimento le sorti delle partite di un campionato già regolare per sentenza sportiva e di primo grado della giustizia ordinaria. Perché? Perché non ci sono più gli arbitri a disposizione, essendo rimasti sotto accusa solo De Santis e Bertini, l’uno in entrata e uscita dall’associazione, cioè non sempre disponibile, l’altro per una serie di intercettazioni che riconducono all’utilizzo di sim. E perché non c’è più il sorteggio truccato, che pure leggiamo apparire ai giudici ancora “ambiguo” nonostante i notai preposti a garantirne il corretto svolgimento e i giornalisti, praticamente tutta l’USSI, ne abbiano smentito l’irregolarità.

Affinché il teorema partorito nel 2006 continui a funzionare è necessario riaccendere i riflettori su quella che ai giudici appare come "una più che certa attribuibilità” delle schede telefoniche, ma anche «l’attenta individuazione effettuata con “olio di gomito” sui tabulati acquisiti dal teste di P.G. Di Laroni». Ammettendo implicitamente che quel metodo artigianale, che non prevedeva l’utilizzo di sofisticati software, è assolutamente risibile e fatto per far coincidere aprioristicamente le accuse con gli accusati. Senza riscontri. Senza prove. Senza considerare che Giraudo una sim nemmeno ce l’aveva.
Un dato di fatto disarmante in un procedimento giudiziario che ha messo in luce come le prove concrete siano state estromesse dagli atti per essere sostituite da ricostruzioni artificiose.
Dulcis in fundo torna d’attualità il caso Paparesta, riesumato a dispetto dell’archiviazione disposta dal tribunale di Reggio già nel 2007 e delle dichiarazioni del protagonista, che disse in una trasmissione di La7 che non voleva passare alla storia come l’arbitro chiuso nello spogliatoio.








 
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