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Eventi di S. BIANCHI del 22/02/2016 10:09:24
Francesco La Neve

 

Francesco La Neve era un medico. Indiscutibile, vista la sua laurea in medicina, ma era anche uno specialista in fisiokinesiterapia, che allora si scriveva col “ch”, ma era la stessa cosa: terapia fisica basata su movimenti attivi e passivi, per il mantenimento o il recupero della normale funzione muscolo-articolare. Era anche uno scienziato, giacché dirigeva ”Italian Journal of Sport Traumathology”, un’importante rivista scientifica che raccoglieva e discuteva le ultime novità scientifiche di quella branca medico-chirurgica. Non era solo un medico “specialista”, era anche un medico “speciale”, di là dall’indubbia abilità professionale. Era “speciale” perché, oltre al compito istituzionale di occuparsi della salute dei giocatori della Juventus, era anche molto ascoltato in ambito tecnico.

Quanti medici giovani hanno invidiato quel collega, con l’impermeabile all’Humphrey Bogart, che sedeva sulla panchina accanto al Trap! Lui, saggiamente, rifiutava quell’aura di privilegio che gli era attribuita:“So che molti colleghi invidiano la mia posizione all’interno di un club glorioso come la Juventus. Ma questa è una vita di sacrifici. In vent’anni non ho mai avuto, dico mai, un sabato e una domenica liberi. In estate sono riuscito a fare, al massimo, un periodo di ferie di quindici giorni. Soprattutto, mai quando volevo”.

Arrivato in bianconero nel 1965, al tempo del “Ginnasiarca” Heriberto Herrera, è rimasto nello staff sanitario bianconero per oltre vent’anni, costituendo, dal 1971 con Boniperti e dal 1976 anche con Trapattoni, un sodalizio tecnico e umano unico al mondo. Con loro, divide uno dei cicli più scintillanti della nostra Juventus: titoli italiani a volontà e tutte e quattro le coppe internazionali che era possibile vincere, e quella Juventus fu la prima squadra europea a riuscire nell’impresa.

La cultura medica, l’intelligenza e la sensibilità l’hanno reso un gran conoscitore dello spirito umano, e lui utilizzava questa sua abilità anche per aiutare e motivare gli atleti, che vedevano in lui anche un padre, un saggio cui ricorrere per consigli nella vita extracalcistica. D’altronde, questa sua abilità nell’analizzare e comprendere la natura umana l’ha reso indispensabile anche nella gestione societaria. Non per niente, Boniperti, Trapattoni e La Neve, oltre ad essere profondamente amici e a trascorrere insieme moltissimo tempo, erano una triade che faceva funzionare alla perfezione quella macchina da successi che era la Juventus. Con maggiore difficoltà rispetto a oggi, visto che allora il numero dei giocatori a disposizione era molto più limitato e si dovevano correre più rischi nel considerare un calciatore pronto per il rientro dopo un infortunio. Leggiamo ancora le sue parole: “… è più facile dire, nell’intervallo di una partita, che un giocatore non è in grado di continuare, ma a volte bisogna invece considerare che quel calciatore è indispensabile alla squadra e, se non c’è pericolo di lesioni, occorre convincere lui e l’allenatore che può continuare”. Non risulta che questo sodalizio di grandi uomini si sia lasciato sfuggire trofei per eccessi di prudenza, o abbia determinato danni irreversibili agli atleti che hanno avuto il privilegio di gestire. Uno tra tutti, Sergio Brio, particolarmente amato dal nostro Dottore anche se non era un mito come Zoff, un fuoriclasse come Platini, un grandissimo uomo come Scirea. La Neve era particolarmente affezionato a Brio, uomo semplice, per il carattere eccezionale che gli ha permesso, dopo mesi di sofferenza, riabilitazione e tenacia, di scendere ancora in campo dopo essersi frantumato un ginocchio in amichevole.

Grande uomo, professionale, colto, paterno e disponibile, gran fumatore di pipa e gran conoscitore di calcio, era anche un gran lavoratore. Aveva tirato tardi assieme a Boniperti, Giuliano, Morini e Trapattoni per discutere delle condizioni fisiche atletiche dei giocatori prima della trasferta di Bari. A Bari, quella volta, non ci andò: nelle primissime ore del mattino del 22 febbraio di trent’anni fa, un infarto miocardico lo portò via alla famiglia, agli amici, alla Juventus e a tutti noi. Per la sua morte, certamente prematura giacché aveva solo cinquantadue anni, una qualche responsabilità può averla avuta il sovrappeso e il fumo di tabacco, ma certo non gli fece bene vivere la carneficina del 29 maggio 1985 e tutti gli avvenimenti conseguenti.

Nota. Le dichiarazioni virgolettate sono tratte da un’intervista di Franco Badolato per “La storia della Juventus”, a cura di Perucca, Romeo e Colombero; Firenze, La casa dello sport, 1988.


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