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Eventi di S. BIANCHI del 01/07/2016 10:03:55
1 luglio 2006

 

Alle dieci e mezzo del primo luglio, il piazzale davanti agli uffici della FIAT inizia ad affollarsi dei tifosi bianconeri di Torino e di quelli che, a gruppetti, rappresentano i Club bianconeri di tutta l’Italia. Siamo tanti, ma speravo che saremmo stati ancor più numerosi, per partecipare a quella marcia dell’orgoglio bianconero che doveva essere di monito a chi di dovere, nelle sale oscure dei palazzi del potere. Arrivano anche tre mezzi scoperti dei Drughi con le gigantografie dell’Avvocato e di Pessotto. Chi non indossa la maglietta del proprio gruppo o del club di appartenenza, ha la T-shirt distribuita per l’occasione dal Centro di Coordinamento, con la scritta “La Juve siamo noi”, la stessa dello striscione che apre la marcia. C’è Beppe Furino, ci sono Ravanelli, Carrera e Rampulla, c’è Mariella Scirea con Riccardo, ci sono Paolo Belli e Giletti.

Dicono che siamo in venti o venticinquemila, ma quando il corteo si dipana verso Corso Galileo Ferraris, vedendo gli striscioni, pare evidente che molti club mancano all’appello. Forse, tra i tifosi bianconeri, molti la pensano come il Consiglio Direttivo del mio Club: “Abbiamo vinto tanto, ma Moggi e Giraudo sono disonesti, quindi è giusto pagare; solo qualche punto di penalizzazione, ma niente Serie B, sia chiaro, e senza toccare coppe e scudetti”. Aspettativa da sepolcri imbiancati che non capiscono che Moggi e Giraudo si erano mossi, con abilità, in un mondo universalmente lobbistico, come dimostravano le telefonate di Facchetti a Bergamo misteriosamente sfuggite ad Auricchio. Desiderio di farisei che vedono il buon Cobolli Gigli, condottiero immacolato e saggio, che sostituisce quei lerci della “Triade”, che “ci mette la faccia” e ricostruisce con altri incapaci, ma su basi di lealtà, una Società che era stata trascinata nel fango da servitori disonesti.

Cercavo di non pensare, andando su e giù per il corteo a scattare foto, ma a parte il senso di rivalsa nei confronti dell’aggressione concentrica, mediatica e popolare, la parola d’ordine che udivo mi piaceva poco: “Si deve accettare il verdetto della giustizia sportiva”. C’era un’aria di colpevolismo speranzoso in una sentenza non eccessivamente pesante. Inaccettabile, per me, come l’assenza di striscioni a favore di Moggi e Giraudo. Ordini dall’alto, evidentemente.

Il corteo procede tra i tanti saluti della gente che ci vede passare e una parte di noi si distacca per andare alle Molinette, l’ospedale dov’è ricoverato Gianluca Pessotto: solo il giorno dopo si saprà che “Professorino” è uscito dal coma, ha riaperto gli occhi proprio il giorno della marcia. Si vede qualche bandiera granata, appesa sotto finestre rigorosamente serrate e qualche i**** ci apostrofa da distanza di sicurezza: partono cori contro questi “coraggiosi” e qualche sassata verso le finestre imbandierate provocatoriamente. Sul muro dello stadio Olimpico qualcuno ha scritto di nero “Giù le mani dalla Juventus”. Che sia un segno del destino per il mio futuro? Peccato non aver fotografato la scritta.

Finalmente, arriviamo alla sede bianconera. Cobolli Gigli avverte che la stragrande maggioranza del corteo è con lui: in camicia e col megafono in mano, si affaccia al portone e si rivolge a noi con frasi che sento vuotissime, che qualcuno più educato di me direbbe “di circostanza”. Le parole di quell’uomo, per la prima volta in vita mia, evocano in me un pensiero di rispetto per Silvio Berlusconi: col suo Milan parimenti immerso nella vicenda, ben si è guardato dal liberarsi frettolosamente dello staff dirigenziale della squadra, anzi, l’ha difeso a spada tratta. Siamo a metà pomeriggio, il viaggio per Torino, il sole, il caldo, il sudore e i piedi dolenti non mi impediscono di pensare a Berlusconi e alla differenza di comportamento con la proprietà bianconera. Mi sarebbe piaciuto prendere quel megafono e fare un po’ di domande a quel signore tanto gentile e perbene che stava menando il can per l’aia. Domande come: “Quanto tempo prima di Calciopoli, sei stato contattato per questo tuo incarico?”; “Perché la proprietà non ha difeso la Triade?”; “Chi ha ordinato a Zaccone quella dichiarazione-autogol sulla congruità della retrocessione?”; “Quel consiglio d’amministrazione dell’IFI che sfiducia Giraudo, era il primo passo della strategia per far fuori la Triade?”; “Pessotto si è buttato giù per amore o c’era qualcos’altro?”.

Troppo caldo, troppo stanco, troppo sicuro di essere non dico solo, ma abbastanza isolato, con quei pensieri da estremista. Tanti erano lì sotto, in via Galfer per “rinascere dalle ceneri di un rogo purificatore” per un qualche peccato che io però non vedevo. Ero andato a Torino per difendere la mia Juventus e i miei dirigenti (quelli veri: Giraudo, Moggi e Bettega) da quella che ritenevo una porcata. Porcata, che tradotta nel linguaggio più equilibrato di Enzo Biagi, era un’azione diversiva per dare la Juve in pasto agli stupidi italiani, per far passare in secondo piano il gravissimo scandalo delle intercettazioni e dei dossier della Telecom.

Con questa mia certezza, avallata dal grande giornalista, tornavo però a casa con un sospetto, orribile, da levare il sonno. Sulla porta della sede, il brav’uomo in camicia e visibilmente commosso, pareva in buona fede nel farsi carico del bene della “mia” Juventus. Lui. Potevo dire la stessa cosa di quell’anaffettivo, sbarbato, di JPE? Suo nonno, l’Avvocato, avrebbe difeso l'amata Juventus con ogni mezzo a sua disposizione. JPE non ci aveva nemmeno provato, quasi gli facesse schifo. Che ci fosse dell’altro?

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