Montero è il solito sudamericano con tanti nomi, come l’amico di Zagor, Cico Felipe Cayetano eccetera, ma oltre a questo è stato un sontuoso calciatore che ha iniziato e terminato la propria carriera nel Penarol di Montevideo, la sua città, dov’è nato il 3 settembre 1971. Alla Juve dal 1996 al 2005 proveniente dall’Atalanta, è un figlio d’arte, e come tanti, ha scritto anche lui una sua biografia: a differenza di parecchi di quei tanti, però, la sua vale la pena di leggerla (Discreti e Cagnazzo: “Montero, l’ultimo guerriero”). Essendo uno dei calciatori che ho più amato da quando guardo la Juve (anni ’60), da ora in poi mi permetto di scrivere di lui in seconda persona, come fosse una lettera che gli scrivo.
Nel tuo periodo italiano hai ricevuto ben ventuno cartellini rossi, dei quali “solo” sedici in serie A, primatista assoluto di tutti i tempi nel nostro Paese. Solo gli sciocchi possono ricordarti unicamente per questo: ripensando al Montero calciatore, ricordo uno dei migliori incontristi e registi difensivi mai visti in campo, senza dimenticare il tuo senso tattico in fase propositiva, in cui “occhio” e piede buono garantivano ripartenze sempre intelligenti. Difensore spietato, con Ferrara hai contribuito a blindare la difesa del “Lippi 1” e del “Lippi 2”, non coperta come nella migliore tradizione trapattoniana, e con Ciro eri spesso costretto agli straordinari. E a beccarti qualche cartellino rosso in più. A Torino, in nove stagioni, sempre indossando la mitica maglia numero 4. hai vinto l’Intercontinentale e la Supercoppa Europea del 1996, poi gli scudetti del 1997, 1998, 2002, 2003 e 2005, due Supercoppe Italiane e una Coppa Intertoto. Il tutto con 278 partite, 13 espulsioni (10 in campionato e 3 nelle coppe europee) e sei reti, ben quattro in Champions. Poi, anche se non fa piacere ricordarlo, hai visto alzare al cielo il trofeo da parte degli avversari, in ben tre finali della “Coppa dalle Grandi Orecchie” (Borussia, Real, Milan).
Non ti sei fatto mancare donne e whisky, ma in allenamento e in campo, tranne quella volta che ti volevano mandare via, e ai giornalisti raccontarono che avevi la febbre, non se n’è mai accorto nessuno. Per le tue imprese, basta chiedere conferma al tuo “socio” Iuliano, per le frequentazioni dei Murazzi, delle discoteche del settentrione, le scazzottate, le partite a pallone a Porta Nuova con gli emarginati, finite sempre in elargizioni di denaro e biglietti stadio (mai di curva).
Avevi una filosofia di vita ben chiara: massimo rispetto per i cascatori all’Inzaghi o le reti di mano alla Maradona, in campo tutto è lecito. E’ fuori che si vedono gli uomini. In tanti hanno assaggiato i tuoi tacchetti, i tuoi gomiti, la tua “pigna”: il gancio rifilato a Di Biagio è diventato una medaglia al valore. Rivedo sempre, con piacere (non mi è mai stato simpatico) il tuo gancio e la mandibola dell’interista che si sposta alternativamente qua e là, fino a perdere l’energia cinetica di cui l’avevi dotata. La cosa, non apprezzata da Moggi, lo fu da altri: la telefonata dell’Avvocato quella volta iniziò maluccio ma fini bene: «
Paolo, non mi sei piaciuto per niente … pevché non l’hai pveso bene: un bvavo pugile con un gancio così l’avebbe fatto cadeve!».
Duro dal cuore tenero, tornando da una figuraccia di squadra col Panathinaikos, a Caselle vedesti spintonare Zizou dai tifosi e tu, come nulla fosse, riponesti con cura gli occhiali nell’astuccio, per poi precipitarti su quegli idioti, disperdendoli a cazzotti. Per questo i colleghi ti amavano, anche se li hai lasciati uno in meno per diciassette volte. Non potevano far a meno di te anche per quel «Vamos! Vamos!», urlato per caricare i tuoi e che faceva cagar sotto gli avversari, che intimorivi ulteriormente in campo. Sentite Trezeguet: «
Secondo lui il primo intervento deve essere duro per far capire immediatamente che aria tira. E poi parlava agli avversari in continuazione. Li faceva impazzire. Era davvero temutissimo». A testa alta, sempre, come quella volta a Roma che Totti ci aveva sfottuto: un bel calcione a palla lontana, e ti avviasti agli spogliatoi, incurante dei fischi, senza aspettare il rosso dell’arbitro. Un po’ peggio a Vigo, col Celta, a qualificazione parzialmente compromessa, già in dieci per il rosso a Conte, rifilasti una gran gomitata a Karpin: espulso, corricchiavi sorridente a testa alta, invitando più volte, con gesti delle mani, gli spettatori spagnoli alla fellatio.
Eri l’incarnazione della voglia di vincere: noi tifosi l’abbiamo capito subito e abbiamo iniziato a venerarti. Tempo dopo l’hai anche spiegato: «Sono diventato bianconero appena arrivato a Torino, mi sono reso conto quanto odio ci fosse verso la Juventus dal resto delle tifoserie, così ho trasformato il loro odio in amore per la Juve, contro tutto e tutti e da allora, quella maglia, è diventata la mia corazza».
Quel che ho scritto mi è venuto dal cuore: mi sarebbe piaciuto scriverla a me, la tua biografia. E’ chiaro che i tifosi amino i Del Piero e gli Zidane: sono quelli degli eurogol, dei sublimi gesti tecnici, degli assist millimetrici per i compagni. Ma sono quelli come te che io amo di più, bravi calcisticamente, che per novanta minuti ci mettono “alma y cojones”, quelli che vanno a dare una “limatina” all’avversario che ha appena fatto un fallaccio sul tuo numero dieci, quelli che si fanno rispettare sempre, in campo e nella vita, quelli che mollano tutto perché Pessotto è in coma all’ospedale e piombano in Italia per quindici giorni, dall’Uruguay. Auguri per il tuo compleanno, Amico!
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