A Gattinara, il suo paese, dov’è nato il 9 ottobre 1941, gioca da centravanti nel Borgosesia, anche con discreti risultati. Con quel fisico esagerato, l’imponente stacco di testa, il tiro potente e quel tackle spietato, lui sogna. Gli ripetono continuamente che diventerà un bell’attaccante se solo continuerà ad allenarsi e a comportarsi seriamente. Lui, ragazzone semplice, giudizioso e di poche pretese lo faceva, anche senza la necessità di quella raccomandazione quasi continua. Un giorno, il Borgosesia s’incontra con la formazione giovanile della Juventus: “
Mi ricorderò sempre quel giorno. Battersi contro la Juventus, anche se si trattava dei giovani, era una vera emozione”. Pur senza far gol, gioca così bene che l’anno seguente, per un milione e mezzo, passa proprio alla Juventus. Giancarlo realizza il suo sogno, ma “
avevo le lacrime agli occhi, mi sentivo troppo ragazzo per osare tanto. Cosa poteva succedere? Sarei stato in grado di rispondere alle esigenze di una squadra come la Juventus? Mille domande mi sono fatto durante quel viaggio fino a Torino. E molte di quelle domande restavano senza risposta”.
Alla Juventus si accorgono presto che con quelle caratteristiche, giacché a far gol non è poi così fenomeno, è preferibile dirottarlo in difesa. In poche settimane diventa uno stopper: “
Ben presto mi resi conto che a giocare in difesa l’emozione è più forte, la responsabilità maggiore”. Allenamenti, nuovi compagni di squadra, speranze e timori: la sua vita cambia, lui migliora sempre più nel nuovo ruolo, fino all’esordio in Serie A, col Mantova. Da bravo e modesto ragazzo qual è, la notte della vigilia i dubbi lo assalgono, e con essi la preoccupazione di non rivelarsi all’altezza. L’emozione del ritiro con i colleghi famosi, il dubbio di non riuscire a seguire le indicazioni dell’allenatore lo fanno dormire poco, ma “
in campo di colpo è passato tutto. Alla paura è subentrata la volontà, il coraggio di lottare. Non sentivo neppure più il pubblico. Capivo, però, che avevo superato il momento più terribile”. Poi, nel dopo partita, tutte le domande dei giornalisti cui non è abituato, ma che gli spettano di diritto, per aver fatto ottimamente coppia col vecchio leone Castano.
Umile e intelligente, capisce che applicarsi agli insegnamenti dell’allenatore e seguire i consigli dei compagni è l’unico modo per migliorarsi e conquistare il posto da titolare. E lui, anima e corpo, si adopera a sradicare il pallone dai piedi del centravanti avversario,
senza un’espulsione in quindici anni di carriera, ma, ricordando le origini, non disdegna qualche avanzata, seguendo le idee del “movimiento” di Heriberto Herrera. Oltre a segnare qualche rete (quattordici in duecentonove partite), è anche uno dei rigoristi, in un’epoca in cui tanti tiravano “la botta”: quella di “Berceroccia” era una delle più potenti, tanto che i portieri, sperando in un tiro angolato, non provavano nemmeno ad abbozzare la parata.
Il sogno di Bercellino, a parte far vincere la sua Juventus (nel suo palmares la Coppa Italia 1965 e lo Scudetto nel 1967; in Azzurro i Giochi del Mediterraneo del 1963 e gli Europei del 1968), era il sogno dei bravi ragazzi dell’epoca: la ragazza al paese (Marisa, che poi sposerà), i fumetti, la caccia, guadagnare per aprirsi un’attività commerciale al momento del ritiro. C’era un altro desiderio: quello di vedere un Bercellino centravanti della Juventus, un desiderio che stava avverandosi. Purtroppo, suo fratello Silvino (Bercellino II, nelle “Figurine Panini”), in due stagioni non consecutive alla Juventus, con sole dodici presenze e sette reti, non convince i dirigenti, che lo dirottano altrove. Gli resta però la gioia di essere sceso in campo sette volte insieme al fratello, come per alcuni grandi del passato. La gara da ricordare è del 13 febbraio 1966, uno Juve - Varese 3 a 1, anche per le due reti di Silvino nel secondo tempo.
Un aneddoto della sua carriera che ama raccontare, è quello del 21 febbraio 1962: “
Ritorno dei quarti di finale di Coppa dei Campioni. Si giocava in Spagna e dovevamo vincere. Di là c’erano Puskás, Gento e Di Stefano, il meglio dell’Europa. Io, invece, ero alle prime esperienze internazionali. Mi tremavano le gambe. Fu Charles che mi aiutò a mantenere la calma. Vincemmo 1-0, con goal di Sivori. Quella sera giocammo con una divisa tutta nera. Ancora oggi le emozioni di quella serata sono fortissime, superiori anche a quelle provate per lo scudetto. L’unico rammarico è che, nella bella, perdemmo e uscimmo alle soglie della finale in Coppa Campioni”. Quello che non racconta è che, come nei sedicesimi col Panathinaikos, in Grecia, sempre per l’indisponibilità di Castano, la Juventus era disposta in campo con l’inedita coppia di difensori centrali Charles - Bercellino.
Per completezza d’informazione,
quella fu la prima sconfitta casalinga in Coppa dei futuri Galacticos, e, a lungo, anche l’unica. Era un’Italia in cui le partite le “vedevi” alla radio: calcio in TV solo la domenica sera, un tempo di una partita prima del TG delle venti e alla Domenica Sportiva di Enzo Tortora. Questo ha impedito a noi vecchietti di ammirare le imprese di questo grande difensore centrale, che potrebbe tranquillamente stare al pari dei più gettonati del nostro attuale campionato. Una grande persona, che alla domanda se avesse qualche rimpianto negli otto anni di Juventus, risponde, con semplicità disarmante: “
Nessuno, davvero. Abbiamo vinto poco, questo sì, perché Inter, Bologna e Milan erano più forti. A noi è sempre mancato il giocatore che facesse la differenza. Purtroppo qualche acquisto si è rivelato non all’altezza e qualche altro ha sofferto per problemi extra calcio, come Combin”.
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