National Stadium di Tokyo, è il 26 novembre 1996: Juventus e River Plate s’incontrano per aggiudicarsi quella che allora si chiamava Coppa Intercontinentale, le celebrazioni del ventennale ci hanno coinvolto anche i giovani juventini che ancora non erano nati o erano troppo piccoli per ricordare. Ognuno di noi ricorda quella partita e, prima che questa abbia inizio, oltre al desiderio di vittoria, ricorda anche la speranza di non soffrire come undici anni prima, e di non vedere più un Platini sdraiato sul prato, tipo Maja Desnuda per un gol inspiegabilmente annullato. Stavolta non ci sono dubbi: una bella statuina in maglia biancorossa, sulla linea di porta tiene in gioco Alessandro Del Piero, che riceve dalla destra e col suo piede preferito realizza, con un tiro chirurgico, il gol partita nell’angolino alto, mal presidiato dalla bella statuina di cui si diceva.
Assieme alla rete di Alessandro, ci ricordiamo benissimo i gesti apotropaici al ricordo del Signor Roth (se lo ricorda certamente anche Michel Platini), la maglia “strana”, senza sponsor, l’orario mattutino in Italia… la quantità industriale di palle-gol fallite da Alen Boksic. Al riguardo, il commento di Gianni Agnelli fu al solito lapidario, anche se meno famoso d’altre sue sentenze: “Boksic? Un gigante, se non tiva in povta”. Tranne poi aggiungere, per addolcire la pillola al croato: “Voglio pavlavne con Lippi. Boksic non deve più tivave in povta, non è il suo pane: lui deve entvae in povta, ecco”. Non aveva proprio torto quel gran conoscitore di calcio dell’Avvocato, ma stavolta non si era sforzato più di tanto, per la sintesi concettuale. Che Alen fosse un grande atleta, che lasciasse sul posto centrocampisti e difensori era chiaro a tutti. Solo che si smarriva davanti al portiere.
Lo “jugo-croato”, un fisico eccezionale, velocissimo, nonostante i quasi uno e novanta d’altezza, agilissimo e anche un po’ soggetto ad infortuni muscolari, è arrivato in bianconero dalla Lazio di Cragnotti, dov’era stato allenato un anno da Zoff e due da Zeman, che però non è riuscito a rovinarlo. Inizia a scrivere il suo nome nel libro della storia calcistica italiana nell’anno di Torino (Scudetto e Intercontinentale) per continuare nei tre anni successivi, nella Lazio di Eriksson, con altri cinque titoli italiani e due europei. Quella Coppa dei Campioni vinta in precedenza sul Milan, quando giocava nell’Olympique Marsiglia, me lo fanno perdonare di tutte le centinaia di “Pater, Ave e Gloria” che il mio confessore mi avrebbe prescritti come penitenza, fossi stato credente, per tutte le parolacce profferite in occasione dei suoi gol mangiati. In effetti, è bello vederlo muovere sul campo. E’ bravissimo a proporsi senza palla, le sue ripartenze palla al piede sono spade nel burro delle difese avversarie sbilanciate. Con cambi di ritmo disorienta i difensori, seminati per via, ma è una tragedia quando quella palla, portata avanti in maniera così egregia, va finalmente infilata nella rete avversaria. Vederlo giocare è veramente un piacere, sarebbe addirittura orgasmico, se invece di tirare in porta passasse la palla a Vieri, Amoruso, Del Piero o Zidane.
Guardando il tabellino riassuntivo delle sue reti, sette in trentatré presenze totali nella stagione bianconera, segna proporzionalmente molto di più nei gironi di qualificazione della Champions League: quattro gol in otto gare. Non sono molti i gol segnati in totale, anche per un attaccante esterno come lui, ma servono però alla conquista di Scudetto e Coppa Intercontinentale. Per lui si potrebbe ipotizzare un’idiosincrasia per le finali (il doppio infortunio che gli fa saltare la doppia sfida vittoriosa col PSG di Supercoppa Europea, lo scarso apporto realizzativo nelle finali di Tokyo e di Monaco col Borussia), comunque emblematica della sua carriera: tanta corsa e tanti errori sotto porta ... ma un vero scardina-difese a vantaggio dei compagni avanzati.
La nostra pagina facebook
La nostra pagina twitter
Commenta con noi sul nostro forum!