La recente partita d'andata dei quarti di Champions' League fra Bayern e PSG, terminata 3-2 per i francesi, ha aperto l'ennesimo dibattito mediatico sul
calcio italiano confrontato con quello europeo. Innanzi tutto dovremmo analizzare bene questa frase: calcio italiano, quindi espressione territoriale ben definita, contro quello europeo, distinzione generalizzata che non specifica alcuna tipicità nazionale; non si parla di calcio francese e tedesco, inglese e spagnolo, portoghese e olandese, no: sui media, si parla genericamente di calcio europeo. Ed è giusto. Perché ormai da anni i football nazionali, con le loro tipicità uniche e pressoché irreplicabili altrove non esistono più. Effetto della globalizzazione, dell'apertura delle frontiere, effetto che però ha attecchito più in certi contesti che non in altri.
L'Italia, ad esempio, fatte salve rarissime eccezioni, come la prima Juve di Conte, il Napoli di Sarri, l'attuale Atalanta di Gasperini e in piccolo il Sassuolo di De Zerbi o lo Spezia di Italiano,
tatticamente siamo rimasti alle convinzioni che un calcio più attento, più speculare, più votato alla cura alla fase difensiva sia ancora la via da seguire, la tipicità nazionale che si fa valore aggiunto per superare le omologazioni europee. La storia recente smentisce clamorosamente tutto ciò. Primo perché non è assolutamente vero che il calcio europeo, che definirei moderno più che europeo, rifiuti, zemanianamente parlando, di curare la fase difensiva, non per niente i migliori difensori al mondo oggi sono tutti stranieri ed è ben difficile indicarne uno italiano, quando, invece, fino a quindici/venti anni fa era l'esatto contrario; secondo perché è dimostrato dalle recenti esperienze di Barcellona, Real Madrid, Bayern, ma anche di Spagna e di Germania che applicarsi nella ricerca del gioco, nel portare il pressing alto, nel far girare velocemente la palla, nel puntare più sulla qualità tecnica e meno su quella atletica è strategia vincente.
In Italia preparazione atletica ed approccio alle partite sono differenti rispetto all'esperienza europea. La preparazione in Italia si continua a fare come venti anni fa: si lavora molto sul fondo e non sulla reattività, sulla frequenza e sull'esplosività, ovvero sull'intensità. Da un punto di vista dell'approccio, in Italia si preferisce puntare più sulla tattica, confondendo spesso la tattica col tatticismo, mentre all'estero si punta più sulla tecnica individuale, anche perché tatticamente ormai ben poco si può inventare.
Altro aspetto fondamentale che contribuisce a determinare la differenza di "velocità" fra il nostro calcio e quello del resto del mondo "evoluto" sta nel fatto che l'Italia,
a livello di grandi campioni, è povera di "materia prima" e quella poca che c'è è di gran lusso, ma tremendamente stagionata: Ronaldo ha 36 anni, Ibrahimovic ne ha 40. Buffon addirittura 43 ed il meglio è già alle spalle, mentre le già citate realtà possono sfoggiare le doti da centometrista tecnico di M'Bappè, nuovo vero calciatore dominante del football mondiale, o quelle da cecchino infallibile di Haaland. Ma anche in questo caso la storia recente dimostra come il calcio italiano sia sempre in ritardo e sempre portato all'investimento sul vecchio campione, che pare venire in Italia come una volta i nostri campioni andavano in America, ovvero a racimolare gli ultimi contratti di fine carriera in un contesto minore rispetto alla loro grandezza. Anche questo è un fatto grave.
Come è grave constatare che anche a
livello di investimenti siamo sempre a rincorrere, sia sui prezzi dei cartellini che sulla qualità dei giocatori comprati. Per fare un esempio banale: quando la Juventus, indubbiamente la miglior realtà calcistica italiana del decennio, si poteva permettere Tevez a 14 milioni, il Real aveva già acquistato Ronaldo per 94; quando la Juve si è potuta permettere Ronaldo a 120 milioni, il PSG aveva ne già sborsati 240 per M'Bappè. Ed è questa continua rincorsa, simile ad Achille che prova a prendere quella tartaruga che mai acciufferà, che dovrebbe far riflettere seriamente i dirigenti e i proprietari del calcio italiano su come investire e su chi, ma soprattutto cambiare metodologie ed approcci, visto che è indubitabile che il calcio italiano da almeno quattro anni a questa parte faccia figure orrende in Europa e comunque che non vinca niente da undici anni, salvo eventuale miracolo della Roma, l'unica rimasta ancora in gioco.
Ed è necessario dare
un'inversione netta di tendenza, perché il calcio italiano, tutto, sembra di nuovo sprofondato nella mediocrità assoluta che lo aveva già attanagliato da metà anni '70 fino ai primi anni del decennio successivo. È deprimente vedere che la miglior società per distacco del movimento non riesce da due anni a passare gli ottavi contro avversari modesti, che da quattro anni non riesce non dico ad andare in finale, vincere poi non se ne parla da venticinque anni, ma almeno ad arrivare alle semifinali. Fatte salve le prestazioni miracolose dell'Atalanta negli ultimi tre anni e la semifinale della Roma in Champions' acciuffata più grazie ad un inspiegabile suicidio del Barcellona che non alla reale forza del club capitolino, le "imprese" delle nostre società oltre i confini patri sono da sprofondo rosso. Non credo ci siano "se" e "ma" ad attenuare la realtà oggettiva di un movimento a livello rasoterra, si considerino anche le tre ultime "esibizioni" mondiali, culminate con la mancata qualificazione al mondiale russo del 2018. Bisogna avere coraggio.
Quel coraggio che tutti i movimenti calcistici europei maggiori prima o poi hanno deciso di darsi. Altrimenti sarà inevitabile il declino che ci porterà ad essere costantemente, inevitabilmente e quel che è peggio perennemente spettatori dei successi altrui, delle qualità altrui.
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