Taluni grandi eventi sportivi vengono sovente ricordati per fattori che con lo sport non c’entrano nulla. Uno di essi è il campionato mondiale di calcio del 1978 disputato in Argentina, che fu vinto dalla squadra padrona di casa. Questo esito sarebbe stato, secondo appunto una certa vulgata, esclusivamente frutto del regime politico presente all’epoca nel Paese sudamericano, regime ovviamente sgradito a chi è di questa opinione. E’ davvero opportuno quindi far riemergere che cosa accadde realmente in campo affinché certe interpretazioni politiche non finiscano col sostituirsi ai fatti sportivi, cancellandoli completamente dalla memoria. In questo modo inoltre ognuno potrà farsi un’opinione senza esserne all’oscuro. Il Mondiale cominciò in modo alquanto sfortunato per l’Argentina, visto che si ritrovò in un girone giustamente denominato “di ferro”. Ne facevano infatti parte tre formazioni europee di tutto rispetto: Italia, Francia e Ungheria. Nessuno pertanto vaneggiò, né ha mai potuto vaneggiare, di sorteggio pilotato o truccato. Il cammino della Selecciòn ebbe inizio contro i danubiani. Questi ultimi passarono in vantaggio presto, ma furono raggiunti poco dopo. La rete della vittoria per due a uno dei sudamericani giunse solo a pochi minuti dalla fine ad opera di Bertoni. A quel punto gli ungheresi persero la testa, dal momento che i loro due attaccanti più forti, Torocsik e Nylasi vennero espulsi in rapida successione per dei brutti falli. Le cronache dell’epoca e gli stessi magiari definirono giusti sia il risultato che le suddette decisioni dell’arbitro (nessuno si sognò di affermare che egli avesse voluto favorire l’Argentina né l’Italia, che avrebbe affrontato l’Ungheria nella partita seguente priva di quei due giocatori). La seconda partita del primo turno fu giocata contro la Francia e fu vinta col medesimo risultato di quella precedente ma con molte ombre. La rete del primo vantaggio dei sudamericani fu segnata da Passarella su rigore, concesso con generosità dall’arbitro che poi ne negò uno ai transalpini per un fallo commesso ai danni dell’ala Six. La rete della vittoria argentina arrivò a circa un quarto d’ora dalla fine e fu opera del centravanti Luque che con uno splendido tiro da fuori area fulminò il portiere francese Baratelli. Restava da disputare la gara contro l’Italia. Alla vigilia di essa sorsero delle inevitabili chiacchiere e discussioni perché le due protagoniste erano già aritmeticamente qualificate per la fase seguente. Sembrava certo che gli europei avrebbero schierato numerose riserve, un po’ per far riposare alcuni titolari, un po’ per aiutare l’Argentina a vincere affinché arrivasse prima nel girone e potesse disputare, come preferiva e gradiva per ovvie ragioni, anche le successive gare nella capitale Buenos Aires. Accadde tutto il contrario. Fu schierata la formazione italiana titolare, gli azzurri addirittura vinsero (gli sarebbe bastato pareggiare per giungere primi) e perciò i padroni di casa dovettero traslocare nella molto più piccola città di Rosario. La Selecciòn affrontò così la Polonia nel primo incontro della seconda fase. Fu probabilmente la sua migliore prestazione ed infatti non viene mai ricordata. Gli slavi erano giunti primi nel loro girone davanti ai tedeschi occidentali allora campioni del mondo ed erano quindi assai carichi oltre che ancora molto forti, seppur un po’ meno che nel Mondiale di quattro anni prima. Contro di loro i biancocelesti, nonostante fossero privi di un uomo fondamentale come il centravanti Luque (la cui assenza si era fatta sentire nella gara precedente persa contro gli italiani, che dal canto loro avevano giocato praticando catenaccio e contropiede), disputarono una grande partita e vinsero nettamente per due a zero grazie ad una doppietta di Kempes, fino ad allora rimasto all’asciutto, che marcò un goal per tempo. Rimarchevole fu anche la prova del portiere Fillol, che parò un calcio di rigore tirato da Deyna, il capitano e il miglior giocatore dei biancorossi, in una fase delicatissima della partita (sul punteggio di uno a zero poco prima della fine del primo tempo). Perfino Boniek, in campo quella sera, mai si è lamentato di quell’arbitraggio né ha mai dichiarato che l’Argentina non meritò la vittoria. Dopo aver pareggiato a reti bianche contro gli odiati e temuti brasiliani, ai rioplatensi toccò affrontare i peruviani nell’ultima giornata del girone, mentre l’altra gara rimasta era Brasile – Polonia. Argentina – Perù è in pratica l’unica partita che viene citata (quasi esclusivamente peraltro per motivi extra – calcistici) da chi sostiene la tesi che quel Mondiale sia stato aggiustato politicamente. Il risultato roboante (sei a zero per i padroni di casa) ed il fatto che l’Argentina, anziché il Brasile, andò in finale grazie ad una migliore differenza tra le reti fatte e quelle subìte fecero effettivamente discutere molto. Procediamo con ordine. Già prima che si giocasse vi furono polemiche tra le due “big” sudamericane, divise (è appena il caso di ricordarlo) da sempre e per sempre da una fierissima rivalità calcistica. I brasiliani dissero che gli argentini avrebbero goduto del vantaggio di giocare dopo di loro. Si fece rilevare inoltre che il portiere del Perù, Ramon Quiroga, era un argentino naturalizzato e quindi avrebbe potuto favorire i suoi connazionali d’origine. Dal canto loro gli argentini evidenziarono che l’arbitro della loro partita, il francese Wurtz, era stato spesso in Brasile invitato (insieme alla moglie) da alcune squadre di club e dalla stessa Federazione verdeoro per dirigere varie gare di tornei e amichevoli. Wurtz poi aveva già diretto Austria – Brasile, gara delicatissima per i “carioca”, che riuscirono a qualificarsi per la seconda fase vincendola di misura, ossia nell’unico modo che assicurava ad entrambe le contendenti il passaggio al secondo turno (!). Sospetta era anche parsa ai padroni di casa la designazione dell’arbitro cileno Silvanho per Brasile – Polonia perché all’epoca Argentina e Cile erano sull’orlo di una guerra fra loro a causa del conflitto del Beagle, una disputa territoriale di confine inerente a talune isolette situate all’estremo sud del continente americano, disputa risolta solo diversi anni dopo. Moltissimi lo ignorano e a quasi tutti potrà sembrare strano visto che in Cile era in quel periodo presente un regime politico dello stesso tipo di quello argentino, questo sì ben noto. Però era così, piaccia o no. Resta il fatto che Silvanho fu l’unico arbitro sudamericano che in tutto quel Mondiale diresse un incontro tra una squadra sudamericana ed una europea. Non contribuiva a rendere più disteso il clima il fatto che il presidente della FIFA fosse il brasiliano Havelange. Al termine delle gare si disse e si continua a sostenere che Quiroga fu “comprato”, mentre l’unico aspetto tecnico che viene evidenziato riguardo alle due partite è che la quarta rete dell’Argentina sarebbe stata da annullare per fuorigioco. Mettendo da parte l’obiezione che questo argomento esclude l’altro (se Quiroga era stato corrotto, che conta che una rete argentina sia stata segnata in off – side?), si trascura di far notare che quella rete fu realizzata quando mancavano ancora quaranta minuti al novantesimo! Siamo seri: in una gara che finisce sei a zero può rilevare che il goal numero quattro segnato al quinto minuto della ripresa sia segnato in fuorigioco? Si rileva pure che quella rete garantiva all’Argentina la finale. Allora perché ne furono realizzate (o ne furono fatte realizzare) altre due? Alla luce del risultato finale bisogna invece dire che i biancocelesti avrebbero potuto permettersi di incassare ben tre reti dai peruviani e andare ugualmente in finale. Su Quiroga poi nessuna prova è stata mai esibita riguardo alla sua corruzione e quindi tutto resta a livello di mere ciarle, ma c’è molto di più che depone in senso opposto. Anzitutto egli difese la porta del Perù anche nel Mondiale successivo, il che contraddice nettamente il suo fantomatico status di traditore della sua patria acquisita. Quiroga inoltre aveva fatto sicuramente di peggio nella prima partita della seconda fase, persa tre a zero dal Perù contro il Brasile. Quella sconfitta e la sua prestazione pesarono moltissimo sul morale dei peruviani, visto che il portiere era stato uno dei maggiori protagonisti della prima fase, avendo parato un rigore allo scozzese Masson sul punteggio di uno a uno in quella che fu la partita chiave per la qualificazione del Perù al turno successivo (i britannici furono poi battuti in rimonta tre a uno). Nell’articolo di cronaca su Argentina – Perù della Gazzetta dello Sport non vi è una sola parola che incolpi né Quiroga né l’arbitro di un benché minimo errore. In sostanza il Brasile di trentadue anni or sono fu semplicemente sfortunato perché il calendario mise di fronte all’Argentina nell’ultima partita la squadra più debole del lotto e oltretutto priva di ogni interesse al risultato, avendo già perso anche la seconda partita del girone contro la Polonia. Il Perù, certamente la grande sorpresa positiva della prima fase di quel campionato insieme all’Italia, era poi già pago dello straordinario rendimento offerto fino ad allora, poiché nessuno aveva immaginato che sarebbe arrivato primo nel suo girone davanti all’Olanda e alla Scozia. I verdeoro invece dovettero affrontare una compagine, quella polacca, che – oltre ad essere più forte di quella peruviana che aveva infatti battuto - nutriva ancora una seppur flebile speranza di accedere ad almeno una delle finali. Certamente l’Argentina giocò conoscendo già il risultato della gara Brasile – Polonia ma, senza dimenticare che questa circostanza non costituiva certo una novità per la squadra ospitante, si trattò in realtà di un vantaggio minimo, per non dire irrilevante. Innanzitutto l’Argentina finì col segnare – come sottolineato - più reti di quante le sarebbero servite, ma soprattutto ripeto, fu decisivo il fatto di giocare contro quell’avversario e ciò, è il caso di rimarcarlo, avvenne in maniera del tutto imprevedibile perché era assolutamente imprevedibile che il Perù arrivasse primo nel suo girone e che l’Argentina si classificasse seconda nel suo (tutto questo pure contraddice la tesi di un mondiale pilotato o comunque orientato). Un’ultima osservazione riguardante il Brasile. Ammettendo che sia stato vittima di una macchinazione e che avrebbe meritato di vincere quel Mondiale al posto dell’Argentina, sorgerebbe un enorme problema. Anche il Brasile era infatti governato da una dittatura militare. Non per niente dopo le prime due mediocri partite chiuse entrambe in parità l’allenatore Coutinho fu sostanzialmente esautorato e le decisioni sulla formazione furono da allora prese dall’ammiraglio Nunes. A meno che non si voglia ritenere che la vittoria calcistica è meritata solo quando il Paese il cui regime politico non piace riesce a ottenerla in trasferta. Si arrivò così alla finale contro l’Olanda e fu probabilmente la finale più violenta della storia dei Mondiali. Gli arancioni si erano già distinti in questo senso nel corso del torneo, picchiando come fabbri nella partita precedente contro l’Italia e non solo (anche per questo in maggioranza gli italiani quella sera tifarono per l’Argentina). Gli argentini dal canto loro non si tirarono certo indietro. L’arbitro, l’italiano Gonella, fu alquanto comprensivo ed equanime e si limitò a quattro ammonizioni, due per parte. I padroni di casa vinsero comunque meritatamente, avendo la meglio dopo i tempi supplementari, nel corso dei quali seppero sorprendentemente tirare fuori una superiore quantità di energie, frutto di una maggiore volontà di vittoria. Forse l’Olanda scontò lo sforzo fatto nelle due gare precedenti contro la Germania Ovest (si trovò due volte in svantaggio e pareggiò definitivamente a pochi minuti dalla fine dopo una gara alquanto dura e violenta) e contro l’Italia, quando – nuovamente in svantaggio dopo essere stata dominata nel primo tempo - risorse nella ripresa, ribaltando il risultato. Immancabile ed ovvio al riguardo il riferimento ad un possibile doping a vantaggio degli argentini, riferimento naturalmente sprovvisto di qualsiasi straccio di prova e che viene tirato fuori sempre quando tutti gli altri argomenti si sono dimostrati infondati o per sminuire comunque i giusti meriti altrui (del resto anche in Italia, all’indomani della sconfitta contro gli olandesi, si sparse la voce che questi ultimi si fossero drogati). Comunque, che l’Argentina meritò di vincere lo sostennero all’unanimità i commentatori più illustri dell’epoca. Giorgio Mottana sulla Gazzetta dello Sport, ad esempio, scrisse:
“Come si sarà visto anche sul video la partita ha avuto della finalissima più la massima tensione che non una elevata cifra di gioco. Chiusa e contratta nella strategia degli olandesi, la partita si è riscattata però nei tre gol argentini, tutti travolgenti, e nelle emozioni automaticamente cresciute nel prolungamento di mezz’ora. L’Argentina non ha accusato la fatica, ha resistito strenuamente, ha combattuto e giocato. E l’Olanda? L’Olanda è rimasta l’eterna seconda. Ha prodotto ben poco in avanti di quello che cercava di sottrarre alla zona più larga agli avversari. La rotazione permanente dei giocatori non è bastata a presentare in numero adeguato un giocatore in zona di tiro. (…) Era giusto, era sacrosanto che vincesse l’Argentina. Non sarà una grandissima squadra, ma in questo mondiale sostanzialmente modesto ha imposto, con la sua stessa modestia una forza morale, un carattere, una convinzione psico – fisica invidiabile. Kempes è stato il suo grande alfiere e Menotti la sua eccellente guida tattica.”
Dal canto suo Gianni De Felice sul Corriere della Sera riportò:
“L’Argentina è campione del mondo. E’ arrivata al titolo che sognava da sempre facendo appello non soltanto alla classe di Mario Kempes, all’astuzia di Bertoni, al lavoro incessante di Olguin, ma alla generosità di tutti i suoi uomini. E’ stata la vittoria della volontà, dell’impegno agonistico. E’stata la vittoria di un intero Paese che, almeno, può trovare nei successi calcistici un piccolo conforto ai suoi tanti e gravi problemi. E’stata la vittoria del cuore, se i nemici della retorica consentono una volta tanto questa espressione. (…) L’Argentina lo ha meritato per il maggiore impegno, per la tenacia con cui lo ha inseguito.” Ancora più esplicito e netto fu Italo Cucci sul Guerin Sportivo (si noti soprattutto l’ultima frase evidenziata):
“Una vittoria giusta, meritata, esaltante perché sofferta per centoventi lunghi minuti durante i quali più di una volta le speranze argentine accennavano a spegnersi, e con loro quelle di venticinque milioni (il numero degli abitanti dell’epoca del Paese sudamericano, n. d. r.) di… giocatori fuori campo. Una vittoria giusta, conquistata dalla squadra di Cesar Luis Menotti, non dalla polizia di Jorge Rafael Videla e neppure dai tifosi…” Si può concludere perciò affermando che il trionfo dell’Albiceleste fu pienamente meritato. Essa non ebbe più fortuna, né più favori di quanti solitamente ne abbiano le squadre vincitrici o che giocano in casa. Per fare due esempi al riguardo, certamente ricevettero più spinte a favore l’Inghilterra nel 1966 e il Cile nel 1962, Paesi entrambi soggetti a regimi democratici. Probabilmente non gioca a favore di maggiori riconoscimenti a quella Argentina, da un punto di vista tecnico, il fatto di aver iscritto il suo nome nell’Albo d’Oro dopo quelli dei due vincitori forse più forti di sempre. Circa poi la partecipazione popolare all’evento, è sufficiente riportare quel che scrisse sulla Gazzetta dello Sport Candido Cannavò il 25 giugno, giorno della finale, in un articolo dal significativo titolo “Ci vorrebbe uno stadio da 25 milioni”:
“A questo punto ci vorrebbe uno stadio per 25 milioni di abitanti, quanti ne sono sparpagliati in questo sconfinato Paese. E magari noi, possessori di un biglietto, ce ne andremmo via perché questa finalissima è cosa loro, degli argentini: che la vivano, che la godano, che la vincano anche. Il tifo esiste dovunque. Il nazionalismo non è solo di queste sponde, abbiamo vissuto eventi di ogni genere che sconfinano dall’ambito sportivo, ma nessuna vigilia è paragonabile a questa, i confronti cadrebbero nel ridicolo, qui c’è tutta una nazione che gioca la finalissima. I fanaticos sono una sparuta minoranza. Il “Vamos Argentina” è di tutti, anche della gente che non è mai entrata in uno stadio e non sa cosa sia una partita di calcio. Questo è il clima di Buenos Aires e di tutta l’Argentina. Da lontano certe cose non s’avvertono, non si riescono neanche a immaginare. Qui si scomoda persino la storia. L’altra sera dopo il 6-0 sul Perù, che consacrò la conquista della finalissima,tutto il popolo fu sulle piazze. Da noi, e anche altrove, queste manifestazioni hanno dei protagonisti ben precisi. Qui c’erano anche le nonne e i neonati, famiglie intere con bandiere nella notte di follia. E nulla di aggressivo, di organizzato e tanto meno di teppistico: ma semplicemente una festa gioiosa, spontanea, sincera. (…) Se l’Argentina vincerà la finalissima, il Paese intero cavalcherà per giorni e notti, non si sa sino a quando, la sua incredibile e felice follia.”
Non occorre aggiungere altro. Piaccia o non piaccia a chi vorrebbe che le cose fossero andate diversamente, fu un’immensa festa di popolo frutto di un’immensa gioia di cui tutti coloro che la vissero per sempre conservarono e conserveranno memoria. Chi lo nega non ha mai visto le immagini delle partite e dei festeggiamenti e, direi, non ha neppure letto la Gazzetta.
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