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Attualità di M. VIGHI del 02/07/2010 07:37:50
Il tempo giusto per andarsene

 

C’è un tempo giusto per andarsene anche quando non si ha un posto dove andare.
Ma poiché l’azione di andare è cosa ben diversa dall’essere mandato via, ecco che essa presuppone la volontarietà del soggetto per il quale detto tempo sarebbe maturato.
Una volontarietà che altro non sarebbe che specchio della consapevolezza e della dignità.
La consapevolezza che sia arrivato il momento di andarsene.
E la dignità di fare la cosa giusta, ovvero compiere una scelta virtuosa non per sé stessi, ma per quello che si abbandona, poiché una volta fatto il proprio tempo non è più possibile apportare qualcosa ma resta solo il rischio di impoverire o peggio rovinare il ricordo di quanto di buono ci può essere stato.

Sarebbe arrivato certamente il momento di andarsene per Giancarlo Abete, presidente della Federcalcio, che ha permesso lo scempio della Juventus nel 2006, il più grande patrimonio del nostro calcio, come riconosciuto persino dal giornalista Sconcerti, tutto meno che bianconero e amico della Juventus. Che ha avallato prima i servigi fatti a qualcuno da Guido Rossi, e poi i silenzi di Palazzi. Che dopo aver portato Albertini in federazione ha accettato gli amici degli amici, con quanto di ben poco buono hanno saputo fare Donadoni con la nazionale maggiore e ben peggio di lui Casiraghi con l’under 21, che prima del suo avvento era stata spesso foriera di grandi soddisfazioni. E che con fare mellifluo ha corteggiato e decantato il ritorno di Lippi alla guida dell’Italia, salvo poi scaricarlo a fine mondiale senza assumersi responsabilità alcuna.
Escalettes, il suo alter ego francese, dopo il fallimento dei blues non ha esitato a rassegnare le dimissioni.
Ma Abete no. Mancanza di consapevolezza o mancanza di dignità?

Il fatto è che andarsene nel momento giusto anche quando non si ha un posto dove andare è un gesto responsabile e professionistico, nonché altruista. Si onora la professione, a discapito del proprio egoismo. Un qualcosa che non va molto di moda oggi, dove quando si abbandona raramente vi è un rigurgito di dignità, ma semplicemente dietro le quinte una nuova opportunità.
Così la scelta non diventa più un atto di altruismo ma di puro egoismo: il tempo per andarsene è quello scelto da chi se ne va proprio quando si ha un nuovo posto dove andare.

Marcello Lippi aveva fatto tutto bene: aveva tenuto duro nella campagna antijuve del 2006, e dunque di chiunque l’avesse mai rappresentata, conducendo la squadra azzurra formata per più di metà da juventini alla vittoria della Coppa del Mondo. Dopodiché, responsabilmente e dignitosamente conscio che fosse maturato il tempo per andarsene, aveva rimesso il proprio mandato.
Solo che il bel Marcello non aveva un altro posto dove andare. Ha avuto le occasioni, ma l’orgoglio e l’ambizione, forse, possono avergli giocato un brutto scherzo, invitandolo a non raccoglierle sempre in attesa di qualcosa di ancora più grande, che non è mai arrivato.
Così ha commesso il grande errore di tornare indietro. Alla Juve aveva funzionato, ma si trattava di due cicli diversi: un tempo si era concluso, un altro poteva aprirsi e così fu.
Ma in questo caso nulla era cambiato: non la federazione ed i suoi uomini, non il clima ed il panorama calcistico italiano.

Abete e Lippi non sono gli unici per cui l’estate del 2010 presenta il conto del tempo di andarsene.
E se il primo, come del resto recita tutta la sua storia personale e professionale, si guarda bene dal mollare una poltrona prima di avere assaporato la certezza del calore di un’altra, almeno il secondo aveva già preso questa decisione prima che si dimostrasse che il suo tempo non era nemmeno più ricominciato, e grave era stato l’errore di pensarlo.
Ma anche per altri personaggi dell’universo del nostro pallone l’estate 2010 è un punto di non ritorno.

Lo è per Mourinho, che ha scelto con cura il tempo giusto per andarsene. E non si dica che la scelta sia giunta per l’offerta del Real Madrid: il portoghese una sistemazione l’avrebbe trovata comunque, sarebbe bastato volerlo.
Mourinho ha fatto il suo tempo, impossibile pretendere altro dopo il triplete. Ma soprattutto lo special one ha fiutato il vento, dai titoloni dei giornali sportivi più vacillanti, alle notizie dall’aula 216 della IX sezione del Tribunale di Napoli, al ritorno di Andrea Agnelli alla Juventus, alla pubblicazione da parte della stampa delle telefonate di chi fu presidente della seconda squadra di Milano, e non esitò a chiamare designatori arbitrali né più né meno quanto il mostro Moggi, e anche peggio poiché le relazioni sono accertate anche direttamente con la classe arbitrale.

Non finisce qui quest’estate del 2010, perché il tempo sta presentando il suo conto.
In casa juventina gli eroi degli anni d’oro della triade sono invecchiati e il ricordo dei loro servigi per la grande Juventus comincia a lasciare il posto ad un presente assai meno limpido.
La consapevolezza di alcuni di questi giocatori è evidente, ma la dignità sembra lasciare il posto alla priorità dei bilanci stilati dai propri procuratori.
Nulla di scandaloso, così va il mondo e pecunia non olet, mai, né quando si stratta di un penny né quando parliamo di montagne di soldi.
Ma la dignità è una qualità alla quale a chi scrive piace conferire ancora un grande valore. E inevitabilmente, se sapranno capire che il loro tempo è giunto, il suo esercizio determinerà chi per sempre resterà nel cuore dei tifosi bianconeri come un grande juventino, o solo un giocatore che fece bene con la maglia della Vecchia Signora.

Se c’è un tempo giusto per andare, ci potrebbe essere allora anche un tipo giusto per ripartire.
In quella estate del 2006, quando la proprietà della Juventus scaricò la triade prima dei processi, diede mandato al proprio avvocato di ammettere illeciti mai riscontrati, e demolì con i suoi trattori la juventus riducendola all’ignobile New Holland, Andrea Agnelli capì che era il momento di andarsene.
Difficile dire quanto la dignità possa avere inciso sulla sua scelta, non vi è dubbio invece che ci deve essere stata la consapevolezza di quanto stava accadendo, dell’impossibilità in quel momento di porre un freno alla devastante azione elkaniana e della sua corte, e la volontà di non rendersi nemmeno con l’immagine complice di tanto scempio.
Se oggi Andrea Agnelli è tornato, speriamo possa essere poiché quel tempo è definitivamente finito.

Agli juventini è giusto che non interessi molto se ha un posto dove andare ciò che ha rappresentato la New Holland, l’importante è che possano essere certi che sia giunto il tempo della sua andata senza ritorno.
Delle macerie che ha lasciato, e degli uomini che l’hanno rappresentata, è rimasto solo Jean Claude Blanc, l’uomo delle promesse non mantenute sulla condotta di corso Galfer in quel di farsopoli e del ritiro del ricorso al Tar. L’uomo incensato dai quotidiani vicini alla real casa ancora non si capisce per cosa. L’uomo che La Stampa definì “ideatore del football sostenibile”, ovvero vincente e di bilancio sano insieme. Peccato che la sua new holland non abbia nemmeno sfiorato una vittoria, e che nonostante una cospicua ricapitalizzazione il buco risultante dai tanti brocchi acquistati (soprattutto dai loro ingaggi) e dalla mancata qualificazione alla Champions League sia più che evidente. Per lui il tempo di andarsene è maturato da un pezzo, e l’uomo, che ha ampiamente dimostrato in passato in altri contesti che l’intelligenza non gli faccia difetto, non può non averne la consapevolezza.

La dignità, si sa, non si compra al supermercato, e in questo articolo di esempi ne abbiamo avanzati abbastanza.
Per tanti di questi , è tempo giusto per andarsene anche se non si ha un posto dove andare.
Anche perché molti tifosi juventini un suggerimento in merito credo che lo darebbero volentieri.
 
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