Il confluire della mia fanciullezza nell'adolescenza segnava la mia crescita ed anche quella della Juventus, che da squadra abituata a vincere nel campionato italiano, allargava le sue ambizioni anche a livello europeo. I miei diari, dalle medie in poi, sono stati sempre pieni di tutti i risultati che di domenica in domenica scandivano i piazzamenti bianconeri in classifica, arricchiti da una dovizia di particolari sul minuto preciso di tutte le realizzazioni, i marcatori, le condizioni atmosferiche, le sostituzioni, i cartellini gialli e rossi, le squalifiche. Insomma, i tabellini completi. Impossibile arrivare impreparata alle discussioni con Giovanni e i pochi altri di fede neroblu, unici antagonisti sportivi ante-milan-stellare. Solamente Nino M. e Toruccio si vantavano di essere rossoneri. Il campo sportivo del mio paese d'origine oggi è intitolato proprio a Toruccio, ma non è come per Bettega, che è uno dei pochi calciatori ad avere avuto intitolato uno stadio da vivo, in Paraguay, ad Asuncion, dove gioca una squadra che si chiama Tacuary. Il destino di Toruccio ha coinciso purtroppo più da vicino con quello di Puerta, il centrocampista spagnolo del Siviglia venuto a mancare il 28 agosto 2007 in seguito a un malore accusato durante una partita. Toruccio era un giovane talento. Molto introverso di carattere, aveva improvvisi slanci nei quali passava dall'ignorare gli amici addirittura a vezzeggiarli, ma bisognava vedere cosa non era capace di fare con un pallone. Un giorno di agosto andava con un amico al mare, in vespa, a vedere il Gran Premio di F 1 da uno zio e un pirata della strada non si è fermato a uno stop. Di lui ho un ricordo struggente, perché anche mia zia Lina aveva una casa nella stessa località e un giorno ci siamo incontrati e abbiamo fatto una passeggiata sulla spiaggia. Abbiamo trovato una moneta da cinquanta lire e io l'ho conservata per sempre. Toruccio ha fatto anche il bagno, io no, perché il mare era molto agitato. Il 25 agosto 1979 è stato il giorno in cui ci ha lasciato e anche quello in cui è finita la nostra fanciullezza. Quelli a cavallo tra gli anni settanta e ottanta sono stati gli anni che ricorderò come i più belli, ma il mio inferno personale era già cominciato. Mio padre era morto nel settembre del 1974, quando io avevo dieci anni e mio fratello otto. Mia madre era una vedova di 35 anni e il mio paese un becero paese siciliano che stava iniziando a cambiare le sue abitudini. Tutti si erano già adeguati al nuovo stile di vita lanciato dai movimenti del '68, ma nessuno voleva ancora ammetterlo. Cose come laccarsi le unghie e continuare a tingersi i capelli portando il lutto o entrare al bar per prendere un caffè e poi accendersi una sigaretta avevano ancora un effetto deflagrante sulla maldicenza e il concetto di "buttana" attribuibile a una donna. Mia madre avrebbe voluto farsi una cultura e avere una professione, ma le era stato accuratamente negato prima dai genitori e poi da mio padre, che proprio per questo era morto disperato, sapendo di lasciarci soli e non troppo bene in arnese. La morte di mio padre credo che rappresentò per mia madre il conseguimento di una libertà improvvisa che non riuscì a gestire, così come non era capace di fare con i soldi (pochi) della pensione di mio padre (nonostante fosse di 14 anni più anziano di lei, non aveva ancora raggiunto il massimo degli anni di servizio come vigile urbano) e del lavoro di rappresentante di corredi che svolgeva insieme a sua sorella per conto di un cugino che le sfruttava, accaparrandosi la fetta più larga delle provvigioni. Gli uomini più sfacciati e arroganti iniziarono a corteggiarla e lei, avvilita dalle chiacchiere di paesani e parenti, iniziò a provarci gusto ad assecondarli per vendetta. A tredici anni non si può dire che io pensassi ancora ai ragazzi, mi piacevano le parole crociate e i romanzi, confezionare vestiti alle Barbie e soprattutto la Juve. La Juve mi ha fatto talmente tante volte da baby-sitter, che la sua presenza nella mia vita mi sembra ancora adesso più costante di quella di mia madre. Quando vincemmo la Coppa Uefa, nel 1977, io ero davanti alla televisione, quando lei ebbe la bella idea di passarmi al telefono la persona all'altro capo del filo. Raccontai il motivo della mia concitazione felice e tutte le fasi salienti della partita, ma ero così ingenua da non capire che fosse il suo amante. Tuttavia quella sera segnò una tappa significativa, una presa di coscienza irreversibile, una metamorfosi definitiva che mi trasformò in una juventina completa, dal sangue, dalla pelle, dal cuore assolutamente e indelebilmente bianconeri. La Juve divenne se non tutto, gran parte della mia vita. Per la cronaca aveva battuto a Torino l'Athletic Club il 4 Maggio 1977 per 1 a 0, dinanzi a 75.000 spettatori, con un goal di Tardelli al 15'. Al ritorno, il 18 Maggio 1977, aveva perso per 2 a 1, ma la rete di Bettega al 7' segnata fuori casa ci aveva consegnato la coppa. E' stata l'unica volta che una squadra di club italiana ha vinto una competizione internazionale con una squadra interamente composta di calciatori italiani. Ai trentaduesimi Manchester City 1 Juventus 0, Juventus 2 Manchester City 0. Ai sedicesimi Manchester United 1 Juventus 0, Juventus 3 Manchester United 0. Agli ottavi Juventus 3 Shakhtar Donetsk 0, Shakhtar Donetsk 1 Juventus 0. Semifinale Magdeburg 1 Juventus 3, Juventus 1 Magdeburg 0. Finale Andata 4 maggio 1977, Stadio Comunale, Torino. Juventus FC 1 - Athletic Club Bilbao 0 Juventus: Zoff; Cuccereddu; Gentile; Scirea; Morini; Tardelli; Furino; Benetti; Causio; Boninsegna (Gori); Bettega. Athletic Club Bilbao: Iribar; Oñaederra; Escalza; Guoicoechea; Guisasola; Villa; Irureta; José Angelo Rojo; Churruca; Dani; José Francisco Rojo. Reti: 15' Tardelli. Finale Ritorno 18 maggio 1977, San Mames Stadium, Bilbao. Athletic Club Bilbao 2 - Juventus FC 1 Athletic Club Bilba: Iribar; Lasa (Carlos); Guisasola; Alesanco; Escalza; Villa; Churruca; Irureta; Amarrortu; Dani; José Francisco Rojo. Juventus: Zoff; Cuccureddu; Morini; Scirea; Gentile; Causio; Tardelli; Furino; Benetti; Boninsegna (Spinosi); Bettega. Reti: 7' Bettega (J), 11' Churruca (B), 78' Carlos (B). La notte in cui ci prendemmo la soddisfazione di battere l'Argentina che avrebbe vinto il mondiale del 1978 tra qualche polemica, ero sola in casa. In paese c'erano le elezioni e ogni tanto mi alzavo per uscire in balcone, più per gettare un'occhiata ai giovani militari di servizio alle scuole elementari, che per prendere una boccata d'aria. Quella sì che era una nazionale come si deve, dal mio punto di vista, quasi tutta made in Juve. Lo prova il goal che riuscirono a confezionarmi Roberto Bettega e Paolo Rossi. Quando c'era, neppure mia madre disdegnava di seguire una bella partita in televisione, ma me la ricordo veramente preoccupata durante tutta la mia adolescenza, telefonare alle mie amiche per cercare di scoprire qualcosa di più sul perché io mi ostinassi a rimanere in casa la domenica per non perdermi 90° Minuto e il secondo tempo della partita di serie A, elargita allora generosamente da mamma Rai. Non si capacitava proprio sul motivo che poi mi spingeva a non uscire la sera per vedere la Domenica Sportiva, appuntamento al quale non avrei mai rinunciato, in considerazione del fatto che oltre al calcio venivano trattati gli altri sport, soprattutto la Formula 1 e il ciclismo. E io non potevo affatto andare ad ascoltare dischi a casa di Enzo o perdere tempo con le "dichiarazioni" di qualche ragazzino, mentre si decidevano le sorti di Niki Lauda e Francesco Moser. A mia madre invece doveva veramente sembrare strano che una ragazzina alla quale avevano pure insegnato a suonare il pianoforte, preferisse seguire lo sport piuttosto che passare il tempo con le amiche e con loro prendere parte al rito consueto delle passeggiate per mettersi in mostra o incrociare gli sguardi di ipotetici innamorati. A dire il vero, a 15 anni, uno che mi piaceva c'era, ma nemmeno lui sembrava tanto entusiasta della mia passione sportiva. In genere i ragazzi che ho avuto modo di frequentare nell'età dell'adolescenza non si aspettavano di trovarsi di fronte un'agguerrita tifosa. La maggior parte di loro mi accusava di non essere romantica quando intavolavo discussioni sul calcio e sulla Parigi Roubaix. Anche Massimo mi aveva fatto lo stesso rimprovero quella sera di Aprile in cui Moser era andato a dormire vittorioso per la terza volta consecutiva sul pavé francese. Massimo era bello, non di una bellezza serena, ma attraente. Aveva un fascino da mille e una notte, lineamenti perfetti e colorito esageratamente bruno. Un mix di dolcezza e impenetrabilità, nascoste dietro una brughiera di neri capelli folti e lucenti che di quando in quando allontanava dalla fronte con un gesto elegante della mano che ne scopriva il candido sorriso. Sembrava un eroe dei fumetti giapponesi o forse solo un principe, ma non uno di quelli banalmente azzurri, piuttosto un guerriero intrepido, un eroe romantico a caccia di ideali, un cavaliere enigmatico in rotta con tutte le ingiustizie del mondo. Un moderno Zorro che più di una volta non aveva avuto paura di rincorrere sul suo vespone teppisti e scippatori. Masticava il mio cuore con struggenti tenerezze e se lo inghiottiva con noncurante, sfibrante poesia. Naturalmente era anche juventino. Io sono sempre stata piccolina e con gli occhiali, parlantina tanta e sex appeal poco. I maschi mi hanno sempre scelta per amica. Massimo non si decideva, con me almeno, perché con le altre arrivava subito al dunque. E' rimasto per tanti anni il mio grande amore, ma mi scelsi un altro. Anche mia madre si scelse un altro amante. Le cose peggiorarono. Il primo era morto ammazzato, il secondo viveva ai margini della criminalità organizzata. Si avvicinavano per me gli esami di maturità. Costui prima fu capace di mettere un ordigno in un negozio nei pressi di casa mia nel cuore della notte, per simulare un tentativo di estorsione. Poi, insieme con mia madre, stanchi di sentirmi lamentare per lo stress di doverli sopportare che ridevano e tenevano alto il volume della televisione fino a tarda ora disturbando il mio sonno, mi picchiarono selvaggiamente il giorno prima dello scritto di italiano. Rischiai di fratturarmi una mano, ricordo che mio fratello rincasò e si mise a urlare incitando i due come un ultrà impazzito. Mesi e anni di sconforto disperato, ma l'anno della mia maturità non l'avrei mai più scordato. La Juventus collezionò il ventesimo scudetto e si appuntò sulla maglia la seconda Stella d'Oro al Merito Sportivo della Federazione Italiana Giuoco Calcio. Era il 1982 e l'Italia vinse i Mondiali. L'Italia? La Juventus, alla quale Bearzot si era preoccupato di aggiungere giusto qualche ritocco. |