A dire il vero non era cominciata bene per noi, tanto che la squadra azzurra si era rifugiata nel silenzio stampa. Feroci erano state le critiche al commissario Bearzot per la mancata convocazione ad esempio di Pruzzo, confluite addirittura in qualche interrogazione parlamentare. I tre pareggi ottenuti con la Polonia, il Perù e il Camerun, considerati abbordabili per i nostri, avevano consentito il passaggio del primo turno, ma avevano gettato gli azzurri direttamente tra le fauci di Argentina e Brasile. Gianni Brera giurava di farsi monaco se l’Italia avesse battuto la nazionale di Maradona. Il pomeriggio del 29 giugno 1982 il caldo era insopportabile. Gli esami incombevano. Gli azzurri sembravano spacciati. Con la morte nel cuore e la testa in Spagna più che alla letteratura italiana, mi buttai sospirando sul Conte di Carmagnola e l’Adelchi. D’un tratto iniziarono a salire dall’ampia strada di sotto le voci della telecronaca in diretta della partita attraverso le autoradio. Era andata via la luce e la gente si arrangiava come poteva. Un unisono di urla mi travolse e mi precipitai sul balcone. Mi sembrò di aver capito che l’Italia era passata in vantaggio. Rincasai, la luce era erogata di nuovo. Corsi in cucina e accesi la televisione. Era vero, goal di Tardelli e poi di Cabrini, inutile la rete di Passarella. Giorno 5 luglio 1982 fu il giorno in cui facemmo mangiare la polvere al Brasile di Zico, Falcao e Socrates. Mi correggo: fu il giorno in cui Paolo Rossi, detto Pablito, fece mangiare la polvere al Brasile. Reduce dagli infortuni al ginocchio e dalla squalifica successiva allo scandalo per le scommesse che aveva fatto piombare il Milan nella crisi della B, affondò gli arroganti verdeoro con una tripletta memorabile. 5’ Rossi, 12’ Socrates, 25’ Rossi, 68’ Falcão, 75’ Rossi, con il supplemento di un quarto goal di Antognoni annullato per un fuorigioco inesistente. Ora il sogno prendeva corpo e fu fisiologico battere la Polonia priva dello squalificato Boniek, il cui volto sconsolato fu a lungo e impietosamente inquadrato dalle telecamere che riprendevano la partita. Due a zero per l’Italia. Doppietta di Rossi. L’11 luglio 1982 vide di fronte in finale la galvanizzata Italia e la stanca Germania Ovest, che si era dovuta conquistare la finale ai calci di rigore contro la Francia. Ormai ci credevamo tutti, ma un rigore sbagliato da Cabrini gelò il sangue nelle nostre vene. Nel secondo tempo Rossi al 57', Tardelli al 69', Altobelli all’81', siglarono il tre a uno che consacrò al Santiago Bernabéu la Nazionale azzurra Campione del mondo, Campione del mondo, Campione del mondo, come sancì l’indimenticabile e incontenibile grido di vittoria di Nando Martellini. A quarantaquattro anni dall’ultima conquista del titolo mondiale, quella che sembrava essere un’utopia, era diventata realtà. Impazzimmo. Di gioia. Un virus incontenibile di felicità percorse lo stivale da nord a sud. Per giorni ci abbracciammo per le strade, anche senza sapere bene chi fosse la persona tra le nostre braccia. Ci sentivamo tutti euforicamente italiani. Era una vittoria che apparteneva a tutti. Nonostante fosse sotto gli occhi di tutti che la Juventus aveva contribuito in maniera determinante a quel successo. La sera stessa della vittoria il mio ragazzo non volle andare a festeggiare e mi comunicò che il giorno dopo sarebbe andato in Veneto dal fratello per riflettere sulla mia e la nostra situazione. I suoi non volevano che continuasse a stare con “una figlia di buttana” e mi lasciava sola a dieci giorni dagli orali dei miei esami di maturità, in quelle condizioni psicofisiche precarie, perché non avevo voluto fare la “fuitina” e andare a vivere con lui nella casa dei suoi genitori. Davanti a mio zio, che aveva tre figlie da mantenere e non gliene serviva una quarta, gli avevo detto che volevo continuare gli studi e che prima avrei voluto trovare da lavorare, ma si era arrabbiato veramente molto quando avevo nominato il mio gatto. Avevo Musettino dall’età di quasi undici anni, in pratica da quando era venuto a mancare mio padre. Era diventata una colpa. Invece il mio gatto aveva contribuito a condurmi fino a quel punto della mia vita senza impazzire. Con la Juventus. Ciao Musetto e grazie, ovunque tu sia. Oltre a Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli, la Juventus arruolò il meglio di quei mondiali: Rossi (già ricondotto a casa durante la squalifica), Boniek e un certo Platini. Il campionato 1982/‘83 portò il secondo scudetto alla Roma di Falcão, complice l’adattamento non immediato di monsieur Platini al calcio italiano e l’esiguo numero di reti, solo sette, di Pablito. La Coppa dei Campioni condusse alla sfortunata finale di Atene. La sera del 25 maggio 1983 i riflettori si spensero su una partita ancora da decifrare, decisa da un goal incredibile di Magath, il tedesco figlio di un soldato portoricano. Ancora oggi si discute sulle ragioni di una sconfitta che trova forse le sue ragioni nei dissapori tra i giocatori e Trapattoni in merito all’interpretazione della partita sotto il profilo tattico. Ricordo di essermi accasciata sulla poltrona come un pupazzo di pezza, senza dolore, senza pensieri, senza parole. Come morta. Senza lacrime. Non era ancora il tempo di piangere per la Juventus. Quello era ancora calcio. In verità piangevo molto. Un usuraio si era presa la casa ereditata dai nonni ed era iniziato l’incubo della vita sotto minaccia di sfratto. Mia madre ci costrinse ad andare a vivere sulla collina di Acitrezza. Bellissimo panorama, fuori dal mondo e da ogni collegamento con esso. Sola, sempre sola, riuscii a studiare per l’esame di quinto anno di pianoforte, in una serata di fine luglio successiva ad una serie di terremoti indimenticati, con la gente che correva fuori senza nemmeno i vestiti addosso. Al Liceo Musicale, in mattinata ci avevano detto di tornare verso le h 14:00. Era incominciata un’interminabile attesa per i corridoi, con una temperatura superiore ai quaranta gradi, senza nemmeno un poco d’acqua da bere. Mi chiamarono verso le h 20:30. La professoressa Agatella Catania mi sussurrò in un orecchio che suonando a quel modo avrei indispettito anche Mozart. Di luce nella stanza non ce n’era, andavo a mente, ma la mia mente non era serena. Mi scuso con Amadeus, che è rimasto il mio autore musicale preferito. In novembre i carabinieri ci buttarono fuori da casa, ma molto gentilmente. Una settimana senza un pasto decente, senza cambiarsi i vestiti, senza poter fare un bidè, dormendo in macchina in qualche piazzuola di sosta. Mia madre riuscì a imbrogliare sua madre prima che morisse e a farsi dare un po’ di denaro. Rientrammo in casa. Quando si prospettò che a tornare fosse anche il suo amante, mi chiusi in bagno a strappare le fotografie fatte al mare e a gettarle dentro al cesso. Cercai di ricominciare. Riuscii a fare l’esame di armonia. Il mio ragazzo volle vedermi a Catania. Pensai che almeno avevo lui. Mi intimò di scendere dalla macchina in piena via Etnea, quasi aggredendomi con violenza, perché doveva farsi la sua vita e i suoi non ci volevano dentro “una figlia di buttana”. Anche se io buttana non sono mai stata. Per recarmi a lezione di pianoforte mi alzavo alle sei. Non passavano autobus e dovevo farmi accompagnare da mio fratello, che lavorava presso un benzinaio e da mia madre, che faceva la cameriera, prima che iniziassero a lavorare. Io aiutavo la mia insegnante con i principianti. Tagliarono la luce. Pagai le bollette con i miei piccoli guadagni. Ero piena di entusiasmo e mi piaceva molto quella sonata di Beethoven che mi avevano scelto. Si chiama La tempesta e ancora la ascolto con lo spartito davanti. Nel 1984 la Juventus vinse lo scudetto e la Coppa delle Coppe. Siccome c’è sempre qualcuno che dice che la squadra bianconera ha vinto troppo in patria e troppo poco fuori dai confini italici, occorre segnalare che non è vero. Tra semifinale e finale regolò il Manchester United giocando in casa, al ritorno, una partita magistrale, vinta a dieci secondi dalla fine con un goal di Rossi, e il Porto. Il 29 Maggio 1985 è una data impressa nella memoria del calcio e in molte lapidi. A Bruxelles si giocò la finale di Coppa dei Campioni in uno stadio che non era affatto adeguato all’evento, in un clima di totale inefficienza che pose a repentaglio la vita di migliaia di tifosi, 39 dei quali, juventini, non ritornarono mai più a vedere la Juventus giocare dal vivo né nelle loro case. Quelli che io considero I Martiri della Juventus, gente normale, gente comune, non appartenente a nessun gruppo di tifoseria organizzata. Persone semplici che come me avevano un sogno e un amore che li accompagnava sempre e che per esso hanno dato la vita. Il resto è la cronaca molto surreale e poco sportiva di una partita vinta per 1 a 0 dalla Juventus ai danni del Liverpool, con un rigore assegnato per un fallo su Platini commesso abbondantemente fuori dall’area di rigore. Si disse che la partita fu giocata per evitare che la situazione degenerasse e per far sì che il pubblico spostasse l’attenzione dai disordini e dal numero delle vittime che aleggiava pesantemente nellaria, sul campo. Esistono tanti racconti di chi ha assistito a questa brutta pagina di cronaca nera, perché tale fu, di chi quel giorno c’era, per fortuna nel settore sbagliato. Recentemente ho sentito Sergio Brio rivelare che i giocatori erano al corrente che ci fossero vittime, ma non che fossero 39. Il mio personale ricordo è di un’attesa che tradisse le attese. Perché in fondo avevamo capito. E per giorni siamo rimasti muti, increduli davanti a quello scempio anche mediatico che ritornava nelle ricostruzioni dei telegiornali. A contare i morti. A chiederci se ne valesse la pena per quello che dovrebbe essere un gioco. Abbiamo avuto anche il coraggio di festeggiare e non ce lo hanno mai perdonato. Non dimenticano mai di dire che quella coppa non conta. I tifosi delle altre squadre e tutti gli zelanti commentatori televisivi che infestano le trasmissioni sportive. Non è vero. Quello che successe non fu colpa della Juventus, né dei giocatori, né della società, né dei tifosi. Fu una tragedia forse persino annunciata. Tragedia dell’incapacità e del pressappochismo. Dell’umana stupidità che non riesce a dare un valore alle cose. Chi commenta le notizie sportive, dovrebbe conoscere le notizie sportive. Dovrebbe sapere che quella finale era stata guadagnata attraverso otto partite disputate contro FC Ilves, Grasshopper-Club Zurigo, Sparta Praga, FC Girondins de Bordeaux, quasi tutte vinte. Che la formazione della Juventus era: S. Tacconi, L. Favero, A. Cabrini, M. Bonini, S. Brio, G. Scirea, M. Briaschi, M. Tardelli, P. Rossi, M. Platini, Z. Boniek (ma anche C. Prandelli, B. Vignola). Una squadra fortissima. Che il 16 gennaio del 1985, appena qualche mese prima, aveva già sconfitto lo stesso Liverpool a Torino, in uno stadio spalato dalla neve, con una doppietta di Boniek, aggiudicandosi la Supercoppa Europea. Che tra le stagioni 1971/‘72 e 1985/‘86 la Juventus si aggiudicò ben nove scudetti. Che nel 1982 Paolo Rossi vinse il Pallone d’Oro, seguito nel 1983, 1984, 1985, per tre stagioni consecutive, da Michel Platini. Che nel 1985 la Juventus diventò la prima società europea di calcio a centrare le tre principali coppe europee per club, ricevendo in riconoscimento la Targa UEFA (The UEFA Plaque) dall'Unione delle Federazioni Calcistiche Europee nel 1987. Che l’8 dicembre 1985 la Juventus giocò contro l’Argentinos Juniors e vinse la Coppa Intercontinentale giudicata più bella di tutti i tempi, famosa per il goal più pregevole di Platini e forse di sempre, con cambio di piede in palleggio aereo, inspiegabilmente annullato dal tedesco Roth. Finita 6 a 4 per la Juventus ai calci di rigore, dopo le reti al 55' di Ereros, al 63’ Platini ®, al 75' di Castro, all’82' di Laudrup. Formazione: Tacconi, Favero, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea (64' Pioli), Mauro (78' Briaschi), Manfredonia, Serena, Platini, Laudrup. Che la Juventus vinse il Campionato italiano di calcio 1985/1986. Che la società bianconera era diventata la prima - ed unica tutt'oggi - società calcistica al mondo ad avere vinto tutte le coppe e campionati ufficiali per club a livello internazionale. E poi c’è una cosa che i cronisti che commentano la Juventus degli anni settanta e ottanta non possono sapere. Che quella squadra mi ha tenuto in vita. Sono stati gli anni dei miei vent’anni. Quelli che tutti vorrebbero rivivere, ma io no. Anni per me disperati, in cui sono morti a uno a uno i miei desideri e i miei sogni. Anni nei quali ho visto la Juventus crederci sempre, diventare non solo grande, ma la più grande. Perdere e crederci ancora. Inconsciamente devo averci creduto anch’io che nonostante tutto per me non fosse finita. Arrivò un altro sfratto. Non riuscivo a studiare con l’incubo costante di vedermi portare via il pianoforte. Non riuscii a preparare l’esame di storia della musica. Me ne stavo sempre da sola a studiare, dentro quella casa sopra la collina. Stavo sempre peggio, ma non lo capivo. Mi sentivo opprimere dalla solitudine e dall’ansia. Sentivo crescere dentro di me quel sentimento di impotente disperazione che mai è riuscita a rassegnarsi, quell’infelicità devastante e bisognosa di qualcuno che mi amasse come sono, per il mio stesso bisogno d’amore. |